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A IVL ci occupiamo di futuro: e un futuro equo e sostenibile è l’unico possibile.
Per renderlo realtà, crediamo che – tra le altre cose – sia necessario trattare di donne e lavoro, di giusta retribuzione e di buona occupazione, e soprattutto crediamo che questo debba essere un impegno concreto e continuo.
Per questo motivo, non abbiamo parlato di divario retributivo solo l’8 marzo, ma ne parleremo sempre, ogni otto del mese.
E oggi, nello specifico, parliamo di origini e soluzioni del gender pay gap in azienda!

Il gender pay gap è la differenza nella retribuzione tra uomini e donne.
In Italia, ad oggi, la differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini è del 43% (rispetto a una media europea del 37%).
Tuttavia, vi sono modi diversi di calcolare il divario salariale, poiché questo si interseca in maniera complessa con gli altri gap lavorativi che penalizzano la componente femminile: il divario occupazionale, la segregazione verticale (il cosiddetto soffitto di cristallo), la segregazione orizzontale (settori a prevalenza maschile, es. materie STEM, vs settori a prevalenza femminile, es. sanità/istruzione).
Le cause profonde di questi fenomeni si collocano a un livello culturale, di stereotipi di genere, i quali vedono la donna come meno competente dell’uomo e/o più predisposta alla cura, motivo per cui la genitorialità e le attività domestiche vengono affidate per la maggior parte alle donne, a scapito del loro percorso di carriera o del loro stipendio. Sono infatti sensibilmente di più le donne costrette al part-time involontario o a dare dimissioni da lavoro, soprattutto dopo la nascita dei figli. Questi stereotipi legati al femminile, che male si sposano con una visione di leadership e di professionalità, sono diffusi nella società e nel mondo del lavoro e guidano, più o meno consapevolmente, le nostre azioni.
Con una ricerca dell’Università di Padova e Istituto Veneto per il Lavoro si è esplorato, mediante l’utilizzo di interviste semi-strutturate, le attitudini delle imprese della Regione Veneto nei confronti degli stereotipi di genere agiti in ambito lavorativo. Per osservare la questione da un duplice punto di vista, sono stati intervistati 16 imprenditori e imprenditrici e 15 lavoratrici di micro, piccole e medie imprese dei settori terziario e manifatturiero del Veneto.
Così come la questione della parità di genere è sfaccettata e complessa, anche quanto emerge intervistando il campione di imprese è multiforme.
Gli stereotipi di genere sono ancora radicati nell’ambiente di lavoro e vedono donne e uomini descritti da caratteristiche opposte: le donne più precise, organizzate e più rivolte alla cura dell’altro; gli uomini più tecnici, assertivi e risoluti.
Tuttavia, imprese gestite da uomini e da donne sembrano essere parimenti efficaci.
Da questa visione contrapposta e normativa dei ruoli di genere si creano:
a) segregazione di donne e uomini in diversi settori, con conseguente difficoltà da parte delle imprese a trovare personale misto e complicazioni per coloro che vogliono intraprendere delle carriere in cui il loro genere è in minoranza;
b) scarsità di donne nei ruoli apicali e difficoltà da parte di quelle che li raggiungono a venire ascoltate e considerate al pari dei colleghi uomini;
c) gestione della genitorialità demandata in toto alla madre, il che costituisce un ostacolo per la carriera lavorativa delle donne e provoca stigmatizzazione per quegli uomini che vogliono dedicare più tempo al loro ruolo paterno;
d) commenti sgraditi e molestie rivolte alle donne in ambito lavorativo, che rendono la loro esperienza al lavoro spiacevole e più difficile da gestire.
Eppure, la presenza di casi virtuosi, di buone prassi o di intenzioni per il futuro, unita al miglioramento culturale che, sebbene lento, è già visibile da diverse generazioni, spinge ad impegnarsi ancora di più verso la parità di genere.
Le soluzioni proposte si pongono a diversi livelli, più o meno profondi e con risultati visibili in tempi diversi.
La Certificazione della parità di genere è una di queste soluzioni, non solo per i vantaggi strumentali che questa comporta, ma anche per le analisi e le riflessioni che spinge a fare.
Tra gli aspetti da esaminare per ottenerla, infatti, si trova l’analisi delle retribuzioni o delle quote di genere all’interno dei ruoli manageriali, che spesso portano l’impresa a vedere per la prima volta criticità a cui non avevano mai fatto caso.
Inoltre, propone delle buone pratiche da implementare nelle imprese, sia culturali che di gestione, che possono spingere l’azienda nel complesso a migliorarsi.
Tuttavia, la Certificazione risulta essere uno strumento con diversi limiti.
Il primo è che spesso sono le imprese già attente alla tematica ad ottenerla, per cui proprio quelle aziende che potrebbero beneficiare di più di riflessioni critiche sulla parità di genere rimangono estranee. In secondo luogo, rimangono escluse anche le piccole e microimprese, che faticano ad affrontare i costi economici e sociali della Certificazione anche a fronte dei pochi benefici che andrebbero a ottenere, e le imprese a prevalenza femminile o maschile. Se nelle imprese miste è più facile vedere le discriminazioni di genere, questo non vuol dire che la tematica non sia di fondamentale importanza ugualmente per le altre imprese, data anche la trasversalità delle pratiche di welfare quali la flessibilità o la gestione di congedi.
Sarebbe quindi interessante poter rendere più accessibile e conosciuta la Certificazione per la parità di genere, o creare un sistema di monitoraggio obbligatorio per le imprese, con un’attenzione all’inclusione e alla parità tra lavoratori e lavoratrici. Poter dare valore a una nuova gestione delle imprese in cui venga data pari dignità ai ruoli materni e paterni, vi sia trasparenza nelle retribuzioni e nelle modalità di accesso ai diversi livelli di carriera e in cui, qualora sia possibile, il merito dei lavoratori si misuri con i risultati ottenuti e non con il tempo fisico passato in ufficio.
Di fondamentale importanza, tuttavia, risulta essere la sensibilizzazione nei confronti degli stereotipi di genere.
È un’azione che vedrà i suoi risultati nel lungo termine per cui sembra essere la meno efficace, ma è quella che agisce nel modo più profondo.
Raccontare gli stereotipi di genere e il modo in cui influenzano le nostre azioni e percezioni è il primo modo per creare consapevolezza.
Una coscienza che può riflettersi in come educhiamo le generazioni più giovani, nei percorsi di studio consigliati e scelti, nell’attenzione durante le selezioni lavorative e l’assegnazione di promozioni e aumenti. L’azione nei confronti degli stereotipi è ancora più forte se viene riconosciuta e diffusa da chi è avvantaggiato da tale bias, in questo caso in particolare dagli uomini.
Inoltre, condividere in gruppo come gli stereotipi influenzino le aspettative che abbiamo nei confronti di noi stessi e degli altri è un modo per sviluppare delle strategie concrete per gestire le aspettative di genere.
Una sorellanza che possa includere in primo ruolo le donne, soprattutto quelle che hanno ottenuto ruoli di potere e che hanno più possibilità delle altre di apportare concreti cambiamenti alla gestione delle imprese, ma che coinvolga anche gli uomini, alleati nel cercare di rendere il mondo del lavoro un posto nuovo, in cui aspettative e possibilità possano essere vincolate solamente dalle preferenze e predisposizioni individuali, a prescindere dal genere.
Dott.ssa Irene Lovato Menin
Università degli Studi di Padova
Ci vediamo il mese prossimo!
Sempre qui, sempre l’otto, sempre alla PARI.
Stay tuned!
